venerdì 17 settembre 2010

Nessun congedo

Hola, buenas, buen dia, que tal, como te sientes, como está todo, como tu tá, kelo ke hay, KLK, …
Ci sono tanti modi per salutare, in Repubblica Dominicana.
Formale o confidenziale, elegante o volgare, ognuno ha il suo modo, molto spesso più di uno, a seconda dell’occasione.
Il più comune e trasversale è “saludo”. Si usa incontrandosi ma soprattutto entrando in un negozio, ufficio, guagua e cosí via.
Mi ha favorevolmente colpito notare che generalmente il dominicano è abituato a salutare: è una buona regola di buona educazione.
Proprio per questo mi ha negativamente colpito notare che invece generalmente non è abituato a salutare nell’atto di congedarsi, ossia quando esce dal negozio, ufficio, guagua e così via.
Anche molti dei miei colleghi dell’agenzia escono dall’ascensore o dal mio ufficio o dalla cucina senza salutare.
Io invece uso il ciao, che mi qualifica come italiano non pentito, e che tra l’altro ho scoperto essere particolarmente cool tra i dominicani più cool – quelli che qualcuno chiama simpaticamente “come mierda” ;)))
Altrimenti utilizzo i classici hasta luego, nos vemos, adios, etc., o formule più cortesi come “que pase un buen dia”, “que tenga buenas”, “que la pase bien” o in caso di amici/amiche il diffuso “cuidate” (che non ha un corrispondente italiano – gli inglesi direbbero “take care” – e la cui risposta corretta è “igualmente” o “igual”).
Epperò come dicevo gli altri generalmente non si congedano.
Raramente un babai (bye bye), la forma più diffusa.
Se no niente.
All’inizio mi dava fastidio, poi mi è sembrato di capire che non sia tanto questione di educazione quanto di cultura locale, di abitudine consolidata.
Mah. Approfondirò.
Quello che invece mi dà veramente fastidio è quando mi rispondono “ooochei”.
Cacchio significa?
OK che cosa?
Io dico arrivederci e tu rispondi OK?!
Ma per piacere.
Spesso mi rispondono OK pure quando dico “grazie”. A Cuba non ho mai avuto problemi: puntualmente ricevevo un de nada o por nada di risposta. Qui invece mi capita che mi rispondano “a su orden” in aberghi, banche, negozi (“a su orden” è anche un modo di rispondere a telefono, in questi casi); se no niente o – per l’appunto – mi becco un “ok”.
Immaginate il dialogo. Io esco dal barber shop dopo essermi fatto la barba: “gracias, adios”.
E il barbiere “OK”.
:(
La mitica doctora Cira, che ho scelto come mio medico qui, mi congeda sempre nello stesso modo.
Io le dico “adios doctora” e lei col suo vocione burbero e roco risponde immancabilmente “te quiero”.
Ma lei è cubana.

giovedì 9 settembre 2010

No entiendo

Ad oggi sono 9 mesi che vivo nella Repubblica Dominicana, e ci sono ancora cose del vivere quotidiano che non comprendo (e altre che non comprendo e mi danno i nervi).
Certo, il tempo aiuterà a conoscere e capire sempre di più, ma il tempo serve anche ad abituarsi, assuefarsi, accettare magari passivamente ciò che invece colpisce, stupisce, a volte indigna il nuovo arrivato.
E se da un lato questo è normale ed anche auspicabile per una migliore integrazione, convivenza e sopravvivenza, dall’altro vorrei fare in modo di mantenere un punto di vista terzo, laico, da esterno; che magari riconosce e comprende ciò che vede e gli accade, anche quando raro, ma non per questo lo archivia automaticamente come normale, accettabile e ineludibile.
Il rapporto con la basura (monnezza) è un esempio, forse il più lampante. Buste di spazzatura buttate per strada, ad ogni angolo, davanti ad ogni casa, perché dicono che così è abituato il dominicano, e se mettono i cassonetti se li rubano. Epperò in questo modo si nutrono cucarachas e ratones (grandi anche come conigli), le strade puzzano, camminare a piedi diventa un camel trophy.

Gli apagones (vedi altro post) sono un altro esempio: buona parte della città convive con i blackout programmati, da tot ora a tot ora a seconda della zona. Pare che sia una vendetta contro gli allacci clandestini e le bollette non pagate: che importa se così si punisce indiscriminatamente tutti, anche e soprattutto quelli che la luce la pagano (e salata!) ma che non si possono permettere un costoso generatore. Provate a pensare quanto può dare fastidio (per usare un eufemismo) vivere nella turistica e costosa Zona Colonial, e stare sabato e domenica senza luce per dodici ore di fila, e per varie settimane di seguito – quando proprio nel weekend potresti dedicarti alla lavatrice ed altre faccende domestiche.
Sono soltanto due esempi (potrei continuare, con questioni anche più gravi, come la crescente mancanza di sicurezza o la egualmente crescente corruzione) delle cose di questo Paese che non comprendo, che credo si potrebbero risolvere con uno sforzo non enorme, di buona volontà se non addirittura di buon governo, e che invece sono e continuano ad essere così, se non peggio.
Perché solo poche isolate voci si levano a segnalare e protestare, mentre la maggioranza della popolazione accetta passivamente, subisce sconsolata; tanto è inutile, fa caldo e non vale la pena sforzarsi.
Non vorrei essere frainteso: se vivessi nel terzo mondo, in un villaggio di case di fango con tetto di foglie di banano, comprenderei e non avrei molto da protestare. Ma questo è un Paese civile, avanzato anche se si definisce ancora in fase di sviluppo, ma che nel frattempo si vanta dei suoi progressi e in molti casi si propone come modello per l’area.
Io vivo in una metropoli di oltre 3 milioni di abitanti, dove ci sono più jeepetas/SUV che in Italia (come ho raccontato in altro post), dove l’affitto mensile di un appartamento di 2 camere in una torre (i lussuosi grattacieli che spuntano come funghi) costa anche 2500 dollari, dove si contano più mall/centri commerciali che a Roma o Milano (e qui IKEA ha deciso di aprire il primo store di tutto il Sudamerica), dove certo le contraddizioni e i contrasti sono tanti, ma questo non può bastare a spiegare e giustificare tutto quello che non va.
I politici sono corrotti, i funzionari pure, la polizia non ne parliamo. Questo spiega le cose che non funzionano, questo mi dicono sempre tutti, dal tassista al costruttore, dal colmadero al giornalista, dal barbiere al direttore creativo.
E la cosa incredibile è che non si tratta di vox populi: la notizia è riportata tranquillamente dai media, anche da quelli più paludati e filogovernativi, senza che però ciò determini una rivolta o – che so – per lo meno lo sdegno generale.
Tempo fa per esempio mi è capitato di leggere su un giornale i risultati di un’indagine condotta da Gallup (serissima società internazionale): “las cinco instituciones consideradas como las más corruptas en el país son los partidos políticos (52.5%), la Justicia (49.8%), la Policía (44.6%), el Congreso (40.9%), y la Dirección de Prevención de la Corrupción (33%)”. Il che la dice tutta. Se chi controlla è compare del controllato siamo a posto.
L’esempio della Colombia, i progressi per molti versi incredibili (e non solo di facciata) compiuti da Antanas Mockus e dai successivi sindaci di Bogotà, che hanno cambiato radicalmente e positivamente la capitale potrebbero, secondo me dovrebbero ispirare un cambio di direzione, una svolta epocale e davvero progressista.
E non vale dire che il Paese non è pronto, che il popolo bue non capirebbe.
È il solito alibi di comodo, di chi preferische che tutto rimanga com’è perché com’è è come gli conviene.