lunedì 2 aprile 2012

(e)migrazione

Per poter aggiornare il blog direttamente da telefonino, lo sposto su un'altra piattaforma. Ci vediamo su santodomingomia.wordpress.com

sabato 12 marzo 2011

giovedì 20 gennaio 2011

Binario (triste e solitario)

Come tutti sanno, il sistema numerico binario è un sistema numerico posizionale in base 2, cioè che utilizza 2 simboli, tipicamente 0 e 1, invece dei 10 del sistema numerico decimale tradizionale. Di conseguenza, la cifra in posizione n (da destra) si considera moltiplicata per 2(n − 1) anziché per 10(n − 1) come avviene nella numerazione decimale. Nato nel secolo XVII, fu riscoperto dalle  grandi scuole di logica matematica del '900, e porterà alla nascita del calcolatore elettronico. Tale sistema è infatti usato in informatica per la rappresentazione interna dei numeri, grazie alla semplicità di realizzare fisicamente un elemento con due stati anziché un numero di stati superiore, ma anche per la corrispondenza con i valori logici di vero e falso.
Ora, potete facilmente immaginare il mio stupore da filologo-matematico quando mi sono reso conto che in Repubblica Dominicana non considerano lo zero.
Cioè, per essere precisi, lo zero non viene considerato nel contare i piani di un edificio.
Io, per esempio, abito al terzo piano, epperò qui è il quarto.
Il piano terra - zero o PT negli ascensori - non c'è, non esiste. Il piano terra qui si chiama primo piano.
E di conseguenza quello che per noi è primo piano qua è secondo, il secondo il terzo, ed ecco spiegato come mai io sto al quarto anche se secondo me sto al terzo.
L'ascensore di Pagés BBDO - l'agenzia di pubblicità in cui lavoro - si regola di conseguenza: come si vede dalla foto, si passa direttamente dal -1 all'1, dove sta la reception o lobby (che per noi sarebbe piano terra o 0, per l'appunto).
L'immagine dell'ascensore mostra anche quanto io sia considerato all'interno dell'agenzia: vedi cosa dice la legenda ai piani 4 e 5 del presigioso edificio (di cui sotto riporto foto).


mercoledì 5 gennaio 2011

Cessi

E lo so che ci saranno cose più amene e interessanti di cui parlare.
Ma non vi scordate che l’intenzione è quella di raccontare il mio modo di vivere Santo Domingo nel day-by-day, e poche cose fanno parte del day-by-day più di questa.
Il gabinetto, tazza o cesso che dir si voglia qua si chiama inodoro. (...)
Ma non è il nome il dettaglio che ci interessa.
Sono altri due.

Il primo è l’acqua alta.
Il secondo è la carta igienica che diventa non igienica.

Andiamo per ordine.
Come credo si veda nella foto, il livello dell’acqua dei cessi dominicani è più alto di quelli italiani.
Nel gabinetto italiano l’acqua rimane nel buco, mentre qui arriva fino alla metà della sua altezza.
E sticazzi, commenterete, travolti dall’eleganza dell’argomento.
E fino a un certo punto, vi rispondo.
Chiunque abbia avuto rapporti con gabinetti siffatti sa quali sono le antipatiche implicazioni. Soprattutto se siete uomini e siete in short o mutande perché fa caldo (come guarda caso qua): farete la pipì assumendo posizioni tra le più strane e ardite, tentando inutilmente di porvi a distanza di sicurezza dagli schizzi di ritorno.
E se invece della pipì farete altro, la situazione non migliora.

Lo so, non è propriamente igienico.
Ma questo è niente, se ci aggiungete la seconda caratteristica dei gabinetti locali.
Ossia che la carta igienica dopo l’uso non si butta dentro, perché se no il cesso si tappa.
La carta igienica si getta quindi nel cestino che in ogni toilette sta affianco alla tazza.
Cestino che a volte possiede l’auspicabile e a questo punto indispensabile coperchio, e altre lamentablemente no.
Simpatico, eh?

Le ragioni di queste scelte strutturali (che non esito a definire sciagurate, pronto a rettifica in caso mi si dimostri il contrario) mi sono del tutto sconosciute.
Giro la domanda al mio amico Marco, che vive da più tempo in Repubblica Dominicana e che in fatto di cessi se ne intende molto più di me.

madeinitaly


Mi era già capitato a Cuba di incontrare nei negozi camicie, pantaloni, cravatte, scarpe, occhiali e accessori di marche italiane a me del tutto sconosciute, improbabili testimonial della moda italiana. "Fariani Italy", "Ninno Vera - Milano", "Barsotti", per citare solo qualche nome.
Santo Domingo ne è piena. A volte si tratta di roba decente, piú spesso di cose abbastanza dozzinali e lontane dallo stile che ci ha resi famosi nel mondo. 
Di madeinitaly insomma non c'è quasi mai nulla, a parte il brand name, che deve inequivocabilmente suonare italiano, tanto che a volte si storpiano nomi famosi o comunque “italiabili”, come nel caso di "Venetto" o di "Enzio Romano".  
In un negozio ho visto una cinta che se non ricordo male era marca “Enzo Bocelli” :))
Il marchio più presente è senza dubbio “Fariani Italy”, che a riprova della sua italianità produce addirittura la guayabera, ossia la classica camicia cubana.

Io per la mia collezione kitch il mio cappellino finto italian fashion me lo sono comprato appena arrivato qua (e si vede pure nella foto del profilo). 
Come avrei mai potuto resistere alla tentazione?
Già mi vedo, nell’after party del fashion week milanese, esibire orgoglioso il mio cappellino “Ninno Vera, Milano”. 
Trendissimo.
O – come  si dice da queste parti scimmiottando gli americani – cool.

mercoledì 15 dicembre 2010

Besos

Oggi compio un anno. Nel senso che esattamente dodici mesi fa iniziava la mia avventura dominicana.
Una delle prime cose che ho imparato, e a cui mi sono abituato, è che le donne si salutano sempre con un bacio. Rigorosamente uno solo, rigorosamente sulla guancia destra (ossia a sinistra per chi bacia, al contrario delle nostre abitudini, e all'inizio non è raro cioccare, ossia scontrarsi andando nella stessa direzione).
Gli uomini invece no. Mai. La stretta di mano è la regola (con le differenti varianti che la cultura afroamericana ha importato anche qui), in alcuni casi è ammesso l'abbraccio, ma non troppo stretto e caloroso, quasi uno sfiorarsi un po' di lato dandosi una pacca vicendevole sulla spalla. 
Bando alle effusioni.
Il machismo impera.

lunedì 11 ottobre 2010

Girano le palle

Ieri pomeriggio ero seduto in terrazza.
Dalla strada mi arriva il classico e fastidiosissimo rumore delle palline clic clac.
Penso a un dejavú, e invece no. Pare che da ste parti siano in voga tra bambini e ragazzi.
E sono le stesse che facevano furore da noi negli anni 70 (e che poi furono vietate perché pericolosissime per i polsi), e non la moderna e sicura riedizione con le stecche di plastica.
Manca solo che imparino a cammnare trascinando e sbattendo il tacco degli zoccoli simil-dottorscholls, e dalla mia terrazza mi teletrasmetto automaticamente sul balcone di Corso Manfredi, in un assolato e afoso primo pomeriggio d'estate, aspettando di andare a Radio Manfredonia Centro per il quotidiano programma di musica rock (il pomeriggio - per ragioni a me tuttora sconosciute - non si andava in spiaggia, e quindi si era costretti a dormire, nonostante il caldo bestiale e - appunto - i fastidiosi rumori provenienti dalla strada; io, che da buon milanese non avevo sonno, combattevola noia e l'afa con la musica).
Colonna sonora "Sotto il segno dei pesci" - a proposito di suoni fastidiosi - proveniente dalla vicina sala giochi.


PS Un premio per chi mi dice il nome del burbero venditore ambulante di zoccoli, pianelli e altre cose da spiaggia che stava nella discesa della Stella

venerdì 17 settembre 2010

Nessun congedo

Hola, buenas, buen dia, que tal, como te sientes, como está todo, como tu tá, kelo ke hay, KLK, …
Ci sono tanti modi per salutare, in Repubblica Dominicana.
Formale o confidenziale, elegante o volgare, ognuno ha il suo modo, molto spesso più di uno, a seconda dell’occasione.
Il più comune e trasversale è “saludo”. Si usa incontrandosi ma soprattutto entrando in un negozio, ufficio, guagua e cosí via.
Mi ha favorevolmente colpito notare che generalmente il dominicano è abituato a salutare: è una buona regola di buona educazione.
Proprio per questo mi ha negativamente colpito notare che invece generalmente non è abituato a salutare nell’atto di congedarsi, ossia quando esce dal negozio, ufficio, guagua e così via.
Anche molti dei miei colleghi dell’agenzia escono dall’ascensore o dal mio ufficio o dalla cucina senza salutare.
Io invece uso il ciao, che mi qualifica come italiano non pentito, e che tra l’altro ho scoperto essere particolarmente cool tra i dominicani più cool – quelli che qualcuno chiama simpaticamente “come mierda” ;)))
Altrimenti utilizzo i classici hasta luego, nos vemos, adios, etc., o formule più cortesi come “que pase un buen dia”, “que tenga buenas”, “que la pase bien” o in caso di amici/amiche il diffuso “cuidate” (che non ha un corrispondente italiano – gli inglesi direbbero “take care” – e la cui risposta corretta è “igualmente” o “igual”).
Epperò come dicevo gli altri generalmente non si congedano.
Raramente un babai (bye bye), la forma più diffusa.
Se no niente.
All’inizio mi dava fastidio, poi mi è sembrato di capire che non sia tanto questione di educazione quanto di cultura locale, di abitudine consolidata.
Mah. Approfondirò.
Quello che invece mi dà veramente fastidio è quando mi rispondono “ooochei”.
Cacchio significa?
OK che cosa?
Io dico arrivederci e tu rispondi OK?!
Ma per piacere.
Spesso mi rispondono OK pure quando dico “grazie”. A Cuba non ho mai avuto problemi: puntualmente ricevevo un de nada o por nada di risposta. Qui invece mi capita che mi rispondano “a su orden” in aberghi, banche, negozi (“a su orden” è anche un modo di rispondere a telefono, in questi casi); se no niente o – per l’appunto – mi becco un “ok”.
Immaginate il dialogo. Io esco dal barber shop dopo essermi fatto la barba: “gracias, adios”.
E il barbiere “OK”.
:(
La mitica doctora Cira, che ho scelto come mio medico qui, mi congeda sempre nello stesso modo.
Io le dico “adios doctora” e lei col suo vocione burbero e roco risponde immancabilmente “te quiero”.
Ma lei è cubana.

giovedì 9 settembre 2010

No entiendo

Ad oggi sono 9 mesi che vivo nella Repubblica Dominicana, e ci sono ancora cose del vivere quotidiano che non comprendo (e altre che non comprendo e mi danno i nervi).
Certo, il tempo aiuterà a conoscere e capire sempre di più, ma il tempo serve anche ad abituarsi, assuefarsi, accettare magari passivamente ciò che invece colpisce, stupisce, a volte indigna il nuovo arrivato.
E se da un lato questo è normale ed anche auspicabile per una migliore integrazione, convivenza e sopravvivenza, dall’altro vorrei fare in modo di mantenere un punto di vista terzo, laico, da esterno; che magari riconosce e comprende ciò che vede e gli accade, anche quando raro, ma non per questo lo archivia automaticamente come normale, accettabile e ineludibile.
Il rapporto con la basura (monnezza) è un esempio, forse il più lampante. Buste di spazzatura buttate per strada, ad ogni angolo, davanti ad ogni casa, perché dicono che così è abituato il dominicano, e se mettono i cassonetti se li rubano. Epperò in questo modo si nutrono cucarachas e ratones (grandi anche come conigli), le strade puzzano, camminare a piedi diventa un camel trophy.

Gli apagones (vedi altro post) sono un altro esempio: buona parte della città convive con i blackout programmati, da tot ora a tot ora a seconda della zona. Pare che sia una vendetta contro gli allacci clandestini e le bollette non pagate: che importa se così si punisce indiscriminatamente tutti, anche e soprattutto quelli che la luce la pagano (e salata!) ma che non si possono permettere un costoso generatore. Provate a pensare quanto può dare fastidio (per usare un eufemismo) vivere nella turistica e costosa Zona Colonial, e stare sabato e domenica senza luce per dodici ore di fila, e per varie settimane di seguito – quando proprio nel weekend potresti dedicarti alla lavatrice ed altre faccende domestiche.
Sono soltanto due esempi (potrei continuare, con questioni anche più gravi, come la crescente mancanza di sicurezza o la egualmente crescente corruzione) delle cose di questo Paese che non comprendo, che credo si potrebbero risolvere con uno sforzo non enorme, di buona volontà se non addirittura di buon governo, e che invece sono e continuano ad essere così, se non peggio.
Perché solo poche isolate voci si levano a segnalare e protestare, mentre la maggioranza della popolazione accetta passivamente, subisce sconsolata; tanto è inutile, fa caldo e non vale la pena sforzarsi.
Non vorrei essere frainteso: se vivessi nel terzo mondo, in un villaggio di case di fango con tetto di foglie di banano, comprenderei e non avrei molto da protestare. Ma questo è un Paese civile, avanzato anche se si definisce ancora in fase di sviluppo, ma che nel frattempo si vanta dei suoi progressi e in molti casi si propone come modello per l’area.
Io vivo in una metropoli di oltre 3 milioni di abitanti, dove ci sono più jeepetas/SUV che in Italia (come ho raccontato in altro post), dove l’affitto mensile di un appartamento di 2 camere in una torre (i lussuosi grattacieli che spuntano come funghi) costa anche 2500 dollari, dove si contano più mall/centri commerciali che a Roma o Milano (e qui IKEA ha deciso di aprire il primo store di tutto il Sudamerica), dove certo le contraddizioni e i contrasti sono tanti, ma questo non può bastare a spiegare e giustificare tutto quello che non va.
I politici sono corrotti, i funzionari pure, la polizia non ne parliamo. Questo spiega le cose che non funzionano, questo mi dicono sempre tutti, dal tassista al costruttore, dal colmadero al giornalista, dal barbiere al direttore creativo.
E la cosa incredibile è che non si tratta di vox populi: la notizia è riportata tranquillamente dai media, anche da quelli più paludati e filogovernativi, senza che però ciò determini una rivolta o – che so – per lo meno lo sdegno generale.
Tempo fa per esempio mi è capitato di leggere su un giornale i risultati di un’indagine condotta da Gallup (serissima società internazionale): “las cinco instituciones consideradas como las más corruptas en el país son los partidos políticos (52.5%), la Justicia (49.8%), la Policía (44.6%), el Congreso (40.9%), y la Dirección de Prevención de la Corrupción (33%)”. Il che la dice tutta. Se chi controlla è compare del controllato siamo a posto.
L’esempio della Colombia, i progressi per molti versi incredibili (e non solo di facciata) compiuti da Antanas Mockus e dai successivi sindaci di Bogotà, che hanno cambiato radicalmente e positivamente la capitale potrebbero, secondo me dovrebbero ispirare un cambio di direzione, una svolta epocale e davvero progressista.
E non vale dire che il Paese non è pronto, che il popolo bue non capirebbe.
È il solito alibi di comodo, di chi preferische che tutto rimanga com’è perché com’è è come gli conviene.

domenica 15 agosto 2010

16 Agosto

Foto da http://ny.remezcla.com
Ero in taxi, di ritorno da un colloquio con un’agenzia di pubblicità, e come sempre faccio guardavo fuori dal finestrino. Anche se è lo stesso tragitto che ho fatto mille volte c’è sempre uno squarcio, un volto, un gesto, un cartello, insomma algo interessante o curioso.
Erano i miei primi mesi in Capitale, e quindi cercavo anche agli incroci i nomi delle strade per tentare di memorizzarli nella mia mappa mentale. Un esercizio in frustrazione, a dire il vero, visto che già dai tempi dei boy scout mi resi conto di non possedere alcun senso dell’orientamento (genetica, direi, se penso ai giri in tondo di mio papà sul Raccordo Anulare ogni settembre romano, alla ricerca dell’uscita giusta per la Cristoforo Colombo e i Tre Pini), e visto soprattutto il fatto che da tanto la mia memoria ha deciso di lavorare poco, e ricordare solo quello che vuole lei, random, senza distinguere tra cose belle o brutte, vecchie o nuove, importanti o insignificanti. Non è stato un processo graduale di degrado: semplicemente a un certo punto ha smesso di funzionare come prima, anche se mi sfugge l’esatto momento in cui è successo. :))
Per evitare il prevedibile tapon dalle parti della Mexico con Duarte, il choffer scelse un percorso alternativo verso casa, che scendesse al Parque Independencia. Fu così che scoprii la Calle 16 de Agosto.
Il fatto che a Santo Domingo avessero deciso di dedicare una strada (non bellissima, ok, ma centrale) al mio genetliaco mi inorgoglì non poco, confermando l’impressione di stare vivendo nel posto giusto.
Naturalmente le ragioni erano ben altre, come mi spiegò il choffer parlandomi di una data storica importante per la indipendenza della Repubblica.
Ho quindi appreso che il 16 Agosto del 1863 (esattamente cento anni prima che io comparissi) un gruppo di patrioti diede inizio alla Guerra de la Restauración, per riportare la giovane repubblica sotto la sovranità dominicana, dato che due anni prima il generale Santana – primo presidente costituzionale – aveva improvvidamente firmato un patto di riannessione alla Spagna. La Corona Spagnola avrebbe poi definitivamente abbandonato l’isola nel 1865, restituendo la Repubblica Dominicana ai patrioti che tanto avevano lottato per l’indipendenza.
Il 16 agosto è quindi il Día de la Restauración, e tutto il Paese si ferma a festeggiare.
Con una certa e certamente immeritata fierezza, celebrerò anche io i miei 47 anni.

venerdì 30 luglio 2010

Colmado

foto da travelblog.org
Nonostante la diffusione di supermercati e ipermercati, il colmado resta un punto di riferimento fondamentale per i dominicani. Al colmado si trovano generi alimentari, ghiaccio, acqua (quella del rubinetto non è potabile), succhi, refrescos (cola e sode varie dai colori e gusti spesso improbabili), detersivi, condom, una pillola per il mal di testa o per la resaca (il dopo sbornia), una tarjeta (ricarica) per il cellulare, le sigarette, e così via.
La varietà dell’offerta cambia a seconda delle dimensioni e caratteristiche del colmado, che a volte propone anche un po' di frutta, ortaggi, carne, e pure sandwiches. Se è grande, si chiama supercolmado o colmadon.
Ma al colmado si va anche per bere una fria (birra) o un superalcolico (Il classicissimo ron oppure il uicki, come lo chiamano qua, venduti in bottiglie dalla mignon alla magnum) magari in compagnia, seduti sulle sedie di plastica dentro o fuori. E quindi diventa un luogo di socializzazione, soprattutto se ha una radio, uno stereo o un juke box che manda musica e/o video a tutto volume, e se ha uno spazio adatto per ballare.
Il vantaggio del colmado è che è comodo, perché ce n’è sempre uno vicino casa, vende anche sfuso (una sigaretta, una libbra di zucchero o di burro), è aperto tutti i giorni fino a tarda sera, e consegna a domicilio (in mancanza di campanelli o citofoni, parte l’urlo “colmado!”, uno dei primi suoni che ho imparato a conoscere in Repubblica Dominicana dopo il merengue e l’assordante antifurto delle auto, che parte col clacson e poi segue con altri tre o quattro allarmi in successione – un autentico strazio: non appena imparo come si fa lo registro e lo posto).
La mia fidanzata, che è una tipa precisa, mi ha insegnato che qualunque cosa si compra al colmado - bottiglie, lattine, etc. - va lavata con acqua calda (per chi ce l'ha) per proteggersi dalla leptospirosi, dato che lo stoccaggio delle merci non sempre avviene in locali propriamente igienici, e i ratones sono alquanto frequenti da queste parti :(( 
Pensavo fosse una precauzione eccessiva, fino a quando non ho visto in tv un’intervista al Ministro della Salute che raccomandava vivamente la stessa cosa, e ho dovuto regolarmi di conseguenza pure io.
Il che vuol dire anche - ahimé - rinunciare alla birrozza servita dal colmadero bien fria.
Bueno, più che rinunciare, diciamo limitare.
Eccheccà... :)
foto da acoste.net

venerdì 18 giugno 2010

Falsi amici

Credo sia capitato a tutti, nella vita. Praticamente impossibile evitarli, anche con tutte le dovute accortezze.
L'esperienza insegna, è vero, epperò il nemico è sempre dietro l'angolo, pronto ad ingannarti.
E allora parliamone.
Italiano e spagnolo sono lingue molto simili, hanno una radice comune, ed è quindi facile incontrare parole che si somigliano, e che hanno lo stesso significato. Questo aiuta molto nella comprensione (quando non parlano a trecento all'ora) ed ovviamente nell'apprendimento.
Il problema è che proprio per questo uno magari si rilassa, si "allarga", e rimane stupito e interdetto quando incappa in quello che comunemente si chiama "falso amico" (false friend in inglese), ovvero quei termini che in spagnolo sono uguali o simili ad altri italiani, e che invece hanno un significato completamente diverso.
Il caso secondo me più eclatante è quello di aceite, che in spagnolo significa olio (!) e non aceto, come si sarebbe naturalmente portati a pensare (l'aceto invece si chiama vinagre).
Rimanendo nel food, non vi arrischiate a chiedere in albergo a colazione dev'è il burro, perché significa asino; meglio optare per mantequilla.
Non vi dico la mia faccia quando a Cuba un cameriere mi servì un Cuba Libre e mi chiese se volevo un asorbente; mi è stato poi spiegato che trattavasi di cannuccia, e mi sono tranquillizzato.
Gli esempi sono tanti: la salida è l'uscita, la tienda è il negozio (mentre invece negocio indica l'affare, il business), il vaso è il bicchiere, largo significa lungo. E così via.
Ci sono anche casi curiosi: esposar in spagnolo vuol dire ammanettare, e probabilmente una ragione ci sarà.
Poi ci sono i termini spagnoli che magari non somigliano al corrispondente italiano, ma sono identici nel mio dialetto. Questi sono veri e propri amici: basti citare l'esparadrapo (cerotto o nastro adesivo per fermare i bendaggi) o il montòn, che è il mucchio (il che mi ricorda un urlo/richiamo comune nella mia infanzia: "u' mundon!") o ancora escampar, che si usa quando la pioggia si ferma, ossia quando scampa, per l'appunto.
Mi fermerei qui, ma non posso proprio chiudere senza citare il caso più eclatante e divertente di corrispondenza tra foggiano e spagnolo (spagnolo caraibico per quel che so, ma accetto correzioni).
A Cuba scoprii che il pene si chiama pinga, e ho riso come un cretino per almeno un'ora (mentre la giovane mi guardava con stupore ed un certo raccapriccio).
Le ragioni di questa incredibile coicidenza linguistica mi sono tutt'ora ignote.
Ogni contributo (serio e costruttivo) è il benvenuto.  :)

venerdì 11 giugno 2010

Noche

Avenida Venezuela, foto da www.dr1guide.com
A Santo Domingo la noche è decisamente caliente, come non è difficile immaginare.
Alla gente piace divertirsi, ascoltare musica e ballare, il tutto accompagnato da abbondante birra e ron. Succede nei colmado (i nostri “alimentari”), ma anche nelle vie o nelle piazze: basta un’auto con casse potenti, un frigo portatile e vai.
Ovviamente la città è piena di ristoranti, bar, locali, discoteche di ogni tipo.
Ce n’è per tutti i gusti e per tutte le tasche.
Ci sono le caffetterie normali e i lounge bar più trendy (frequentati da ricchi bianchi o ricchi anyway), le trattorie e i ristoranti internazionali (compresi i tantissimi italiani), le discoteche popolari e quelle degli hotel o comunque da fighetti (dove spesso la selezione all’ingresso è rigida, e non entri se – per citare un ridicolo esempio – porti scarpe da ginnastica). Ci sono i locali gay, quelli alternativi, il karaoke, i nights, insomma tutto quello che ti immagini di trovare in una capitale da 3 milioni e mezzo di abitanti.
L’elenco non è esauriente e non vuole esserlo, solo racconterò – magari in vari post – le esperienze curiose o comunque interessanti.
Io mi trovo meglio nei posti popolari, che non se la tirano, purché ovviamente siano tranquilli.
La sicurezza è importante, considerato il tasso alcolico medio e la diffusione di armi in questo Paese (sarebbero vietate, ma di gente che gira con la pistola ce n’è tantissima).
Diciamo che la sicurezza è una variabile determinante in ogni senso da queste parti, ma il discorso merita trattazione separata.
Mi piace andare nei locali dove si suona musica tradizionale o jazz (non molti, purtroppo), oppure nei disco bar ad ascoltare i dj set spesso raffinati e aggiornatissimi.
Non disdegno i colmadon o i liquore store, dove tra sedie di plastica e casse di birra rovesciate si beve e si balla merengue, bachata, salsa e reggaeton. Caratteristico anche il car wash, autolavaggio di giorno e discobar di notte.
Per ballare mi piace la “Venezuela”: una strada lunga e larga, parecchio trafficata, diciamo pure convulsa, dal giovedì in poi. Trovi un po’ di tutto, e puoi spostarti da un locale all’altro provando differenti stili e ambienti, dal basico al trendy.
La prima volta è stato uno shock.
Non ho mai visto una tale concentrazione di belle ragazze in vita mia. E credo di aver girato abbastanza.
Non è solo che siano belle, tirate e profumate, è che sono davvero tante. Provando a fare una mano di conti, direi che almeno il 70% sono belle, e una buona percentuale di queste ti fa girare la testa.
Soprattutto negras, morenas, mulatas, indias, chinas e mescolanze varie ma, di qualunque colore e sfumatura, maledettamente belle e sexy.
I dominicani sono – generalmente e con le dovute eccezioni – gente amable, ed è quindi possibile in una discoteca o discobar avvicinare una ragazza ed invitarla a ballare senza beccarsi un’occhiataccia o una risposta sdegnosa. La buona educazione e l’intelligenza suggeriscono di chiedere il permesso in presenza di accompagnatori, magari evitando ceffi poco raccomandabili. Certo influisce il fatto di essere stranieri e bianchi, ma insomma le cose di norma si svolgono in maniera abbastanza easy.
Io mi diverto a vedere quell’impunito dell’amico mio – ballerino fenomenale – che sceglie la bellissima preda e l’invita a ballare. Lei accetta non senza una certa compassione verso il temerario straniero bianchiccio, della serie “sei sicuro? guarda che io ballo sul serio, rischi una figura di merda…”. Dopo i primi passi, puntualmente, si gira a guardare gli amici con tanto di occhi, a dire “coño, pero como baila ese muchacho!”.
Ogni volta, stessa scena.
Subito dopo il ballo, se vale la pena, scatta la chiacchiera con immancabile passaggio del numero di cellulare.
Finirà bene? Ci sarà quimica tra i due?
Quien sabe.
Speriamo solo che lei abbia un’amica carina.
E che magari mi insegni pure a ballare.

lunedì 7 giugno 2010

Bigodini

Per le dominicane stare "in ordine" è assolutamente fondamentale.
Difficile incontrare la sera in giro per locali una chica, una mujer che non sia curata e profumata.
Per questo la preparazione prima della salida (uscita) è lunga e laboriosa.
E andare anche più volte a settimana al salon peluqueria o coiffeur, come già detto in altri post – è un must. Forse per questo ce n’è una valanga.
Quando non si può ci si arrangia a casa, e quando i capelli non sono in ordine si esce coi bigodini (magari per andare a far la spesa). Ma è molto più comune (quanto orripilante) la retìna, portata con assoluta disinvoltura sia in casa che per strada.

giovedì 27 maggio 2010

Un giorno in clinica

Vivo qui da troppo poco tempo per dare un'opinione ponderata e complessiva del sistema sanitario dominicano. E poi - grazziaddio - sto abbastanza bene.
Però posso riportare le mie prime impressioni, e poi magari riprenderemo l'argomento.
Mi avevano detto, e avevo letto, che in Repubblica Dominicana la sanità pubblica non è proprio un granché, e che conviene affidarsi alle cliniche private.
Io non so come sia la sanità pubblica: ho solo accompagnato una sera al pronto soccorso la mia meravigliosa novia, che non si sentiva bene, ed effettivamente sì, l'ospedale è vecchiotto; ma più di questo non posso dire.
Invece ho avuto a che fare con le cliniche private.
Mi sono fatto il mio seguro medico, perché senza assicurazione mi hanno spiegato che non conviene stare.
Il mio piano costa circa 30 euro al mese, e mi copre l'80% di tutte le spese (anche per le medicine).
Ho quindi scelto una clinica, una grandicella tra le centinaia che sono qui in Capitale, soprattutto a Gazcue, il bellissimo quartiere pieno di alberi non lontano dalla Zona Colonial, e sono andato a consulta da un dottore
(da qualche tempo mi fa un po' male la schiena).
Niente di che, mi fa lui dopo la visita, però visto che ci siamo facciamo un bel checkup completo. Analisi del sangue e delle urine, ecografia, radiografia, tac.
Mi dico: adesso comincia il bello. Sai che rottura.
Invece, da non credere.
Ho fatto tutto in un giorno. Il giorno stesso.
Tutto.
E l'indomani avevo tutti i risultati.
Quelli delle analisi sono arrivati online, nella mia area privata del sito del laboratorio (così li può consultare anche il mio medico italiano...).
E cioè qui funziona che uno va in clinica, chiede di fare una tac, paga 8 euro (il prezzo di una bottiglia di vino decente, per capirsi, 70 euro se non ha il seguro), gli fanno la tac all'istante, e dopo mezz'ora ha il risultato.
Poi, sempre nello stesso reparto, si sposta a fare la sonografia. Mentre mi faceva l'ecografia, la doctora mi mostrava tutto sul mio monitor, e alla fine mi ha consegnato il referto e il dvd con la registrazione.
Ora, io non posso esprimere giudizi sul livello di preparazione della classe medica dominicana.
Ma i tempi e i livelli dell'assistenza sono di eccellenza.
E non è - tanto per chiarire - solo roba da paperoni.